LA FILOLOGIA NON E' UNA SCIENZA CERTA:

CRITICA_TESTUALE

I DIFETTI DELLA CRITICA TESTUALE

In quest'articolo, abbastanza lungo e complesso, spiegheremo perché la filologia, per quanto utile, vada saputa usare altrimenti potrebbe, addirittura, essere foriera di grossi errori.

Il vocabolario della Treccani, alla voce "filologia", scrive:

1. Insieme di discipline intese alla ricostruzione di documenti letterari e alla loro corretta interpretazione e comprensione, sia come interesse limitato al fatto letterario e linguistico, sia con lo scopo di allargare e approfondire, attraverso i testi e i documenti, la conoscenza di una civiltà e di una cultura di cui essi sono testimoni..

http://www.treccani.it/vocabolario/filologia/

La filologia, pertanto, ha come scopo la corretta interpretazione e comprensione di un testo. L'ecdotica, invece, è la branca di tale disciplina che si occupa della corretta ricostruzione di un testo antico; la Treccani, a riguardo, scrive:

ecdotica Critica del testo esercitata nel preparare un’edizione critica. È la branca della filologia che si propone la ricostruzione in una forma quanto più possibile vicina all’originale di un testo antico, attraverso lo studio e la comparazione dei suoi testimoni (per lo più manoscritti). Frutto del lavoro ecdotico è la cosiddetta edizione critica, che dà conto non solo dell’ipotesi di testo elaborata dal filologo, ma anche delle varianti scartate.

http://www.treccani.it/enciclopedia/ecdotica/

La filologia, però, a differenza della matematica (dove 2+2 fa sempre 4), non è una scienza certa. Dico ciò perché, sebbene talvolta sia utilissima, considerarla "scienza certa" potrebbe, soprattutto in certi casi, essere non solo sbagliato ma anche pericoloso; se usata male, infatti, può, addirittura, portare a interpretazioni del tutto errate. Dunque, prima ancora di esaminare i presunti errori attribuiti alla Bibbia, è bene precisare una cosa: nonostante molti critici, soprattutto negl'ultimi due secoli, abbiano elevato la filologia al rango di scienza certa, il metodo filologico, di per sé, è tutt'altro che preciso. Dirò di più: prestare eccessiva fede nella filologia può dare origine a un errore dopo l'altro. Faccio alcuni esempi. 

SALMO 21 (22)

Fino a non molti anni fa, praticamente tutte le Bibbie "in volgare" traducevano così il verso 17 del Salmo 21(22):

17 Un branco di cani mi circonda, mi assedia una banda di malvagi; hanno forato le mie mani e i miei piedi

In qualche caso, in alternativa al verbo "forare", veniva usato il verbo "trafiggere".

Oggi, però, nell'illusione che la filologia sia scienza certa, le più recenti edizioni della Bibbia riportano così quello stesso verso:

17 Un branco di cani mi circonda, mi assedia una banda di malvagi; hanno scavato le mie mani e i miei piedi

Come si può ben vedere, l'espressione "hanno forato" (intesa come trafiggere) è stata cambiata in "hanno scavato"; i critici, infatti, dicono che il verbo karah, nell'Antico Testamento, non indicherebbe l'azione di trafiggere qualcuno bensì di scavare una fossa (tipo nel terreno). Ebbene, non discuto che quel verbo significhi, innanzitutto, "scavare" ma un qualsiasi filologo dovrebbe spiegarmi in che modo sia possibile "scavare" mani e piedi di qualcuno se non forandoli (cioè trafiggendoli). Il buon San Girolamo, non a caso, quando tradusse la Bibbia in latino, preferì spesso tradurre "ad sensum" anziché "ad litteram". Tradurre "hanno forato le miei mani e i miei piedi"  fa, chiaramente, pensare all'atto della crocifissione; certi critici, però, non accettano che la Bibbia possa davvero aver predetto, con secoli di anticipo, la morte in croce di Cristo, dunque, non potendo cancellare quel verso, si è scelto di interpretarlo diversamente. La cosa peggiore, e che più mi rattrista , è che finanche nella Chiesa ci sia chi vada dietro a certe cose.

Il suddetto, è il più classico degl'esempi di come la filologia, se usata male, sortisca l'effetto opposto rispetto all'obiettivo prefissatosi. Scopo di tale disciplina, infatti, (come riportato in cima all'articolo) dovrebbe essere quello di interpretare un testo nella forma più corretta e più vicina all'originale. Ebbene, a mio modesto avviso, non è assolutamente verosimile che l'autore di quel salmo, scrivendo quel verso, intendesse l'azione di scavare una fossa anziché quella di trafiggere. Lo chiedo anche a voi: è forse possibile "scavare" le mani di qualcuno se non trafiggendole?

CREAZIONE DAL NULLA

I critici dicono che il primo capitolo della Genesi non parlerebbe di creazione "dal nulla" poiché il verbo ebraico ברא barà ("creare") non sarebbe sinonimo di creazione ex nihilo ma indicherebbe l'azione di tagliare, separare o ordinare. La radice del verbo barà, infatti,  pare sia בדל che vuol dire, appunto, "separare" o "dividere". Dio, in sostanza, non avrebbe creato dal nulla ma da materia pre-esistente, limitandosi a separare e ad ordinare le cose partendo da una situazione caotica. Il fatto, però, che la radice etimologica di quel verbo (barà) non faccia riferimento alla creazione "dal nulla" non vuol dire che il "barà bilico" fosse, realmente, sinonimo di "separare" o di "ordinare". L'uomo, quando viene a trovarsi di fronte a una realtà a lui prima sconosciuta, per definirla, difficilmente inventa una parola del tutto nuova bensì tende a usare parole che gli siano già note. Pensiamo, ad esempio, alla parola "materia". Tale termine indica la sostanza delle cose sensibili. I filosofi greci (da Aristotele in avanti), per parlarne, usarono la parola ὕλη (hyle). Tale termine, però, almeno fino a quel momento, aveva un significato ben diverso da quello datogli successivamente: hyle, nell'antica Grecia, altro non era che il legno di bosco. Secondo il "Lexicon" di Liddel & Scott (A Lexicon Abridged from Liddell and Scott's Greek-English Lexicon), prestigioso vocabolario di greco antico, fu Aristotele, discepolo di Platone, colui che adottò il termine hyle per definire la materia come sostanza delle cose. I filosofi greci, pertanto, non inventarono un termine nuovo ma adattarono, allo scopo, il pre-esistente hyle (legname). Difficile stabilire, con certezza, perché fu scelta proprio quella parola; forse perché hyle, oltreché di legname e selva, era pure sinonimo di "materiale da costruzione".

La storica ed etruscologa Luciana Aigner Foresti, qualche anno fa, nella sua opera "Antichità Classica" (edita da Jaca Book), inserì un breve (ma ben curato) "dizionario della filosofia"; alla voce "materia", riguardo l'origine del concetto, scrisse: Il termine originario greco è hyle, che significava dapprima selva, legname, legna, e filosoficamente ha assunto il significato tecnico di materiale di cui sono fatte le cose, e quindi materia. Il creatore del concetto è soprattutto Platone; la consacrazione del termine in senso tecnico è di Aristotele.

Lo stesso Aristotele, nella sua "Metafisica", spiegò il significato da egli dato alla parola hyle: "Chiamo materia (hyle) ciò che di per sé non è alcunché di determinato, né una quantità, né alcun'altra delle determinazioni dell'essere. (Metafisica, Libro VII, 3, 1029 a,20 ss.)".

Oppure, pensiamo alla parola "germe". Tale termine, per noi, è sinonimo di "microbo" o "microrganismo"; la parola germe, però, esisteva già molto tempo prima che fossero scoperti i microbi; il germe, per gli antichi, era il seme delle piante. Il "germe di grano", ad esempio, non è un microrganismo patogeno e neppure un parassita del grano bensì è il seme di tale pianta (o meglio, è l’embrione, ovvero la parte fondamentale del seme). Ma allora perché i "microbi" vengono chiamati "germi"? Probabilmente per via delle loro piccole dimensioni (sebbene i microbi siano, di gran lunga, più piccoli di qualsiasi seme). 

Ancor più curioso ed emblematico è il caso della parola "virus". Trattasi di un termine latino che vuol dire "veleno" ma non veleno in senso generico (in tal caso i romani usavano la parola "venenum" diventata, poi, in italiano "veleno") bensì quello dei serpenti, di alcuni insetti e di alcune piante. Anche "venenum", in origine, aveva un significato diverso da "veleno"; si pensa, infatti, che tale parola derivasse da "venus" (nome latino della dea dell'amore) tant'è che in origine (nel latino di epoca pre-imperiale) era sinonimo di filtro d'amore o di pozione magica; successivamente diventò "veleno" in senso più generico 

esempi: "Boudicca vitam veneno finivit" che vuol dire "Boudicca pose fine alla sua vita con il veleno", frase tratta dal 14° libro degl'Annali di Tacito; oppure: "voluptarium venenum" che vuol dire "veleno sotto parvenza di piacere", frase usata da Seneca, nell'Epistola 95, per definire i funghi.

Anche la parola "virus", col passare del tempo, non fu usata sempre allo stesso modo.

Esempi: "aequor Ionium glaucis aspergit virus ab undis" che vuol dire "il mare Ionio spruzza salsedine dalle onde verdastre", frase usata da Tito Lucrezio Caro nel "De Rerum Natura"; oppure: "animae leonis virus grave" che vuol dire "l'alito dei leoni è fetido e pesante", frase tratta da "Naturalis Historia" di Plinio il Vecchio. 

I romani, pertanto, non usarono il termine "virus" solo a intendere una sostanza velenosa ma anche, ad esempio, come sinonimo di acqua salmastra e di fetore.

Poi, però, sul finire del '800, il microbiologo olandese Martinus Beijerinck scoprì un'agente patogeno di gran lunga più piccolo dei batteri e si iniziò a chiamarlo "virus". Tale termine, nell'era dell'informatica, è usato anche per definire un software in grado di infettare uno o più file, facendo copie di se stesso e senza farsi rilevare dall'utente.

Ricapitoliamo: la parola "veleno" deriva dal latino "venenum" che, a sua volta, deriva da "venus"; sebbene tale nome (venus) nulla avesse da spartire con quel che noi chiamiamo "veleno", i romani ne trassero la parola "venenum" alla quale, ben presto, diedero, appunto, il significato di "veleno". Il "venenum", però, per i latini, non era, propriamente, né quello dei serpenti, né quello di certi insetti o di alcune piante; gli antichi romani, infatti, in tal caso, usavano la parola "virus" che ai giorni nostri, però, non indica più alcun tipo di veleno ma tutt'altro: in biologia indica un determinato agente patogeno, mentre in informatica è una tipologia di maltware.

Ho fatto tali esempi per dimostrare, inequivocabilmente, due cose:

1) che l'etimologia di un termine non sempre esprima l'effettivo significato di una parola

2) e che il termine in questione, col passare del tempo, possa acquisire vari significati (talvolta del tutto diversi da quello originario).

Il verbo "barà", pertanto, con buona pace dei filologi, può essere considerato sinonimo di creazione ex nihilo indipendentemente da qual ne fosse l'origine etimologica. Tale verbo, fra l'altro, nella Bibbia, è usato solo ed esclusivamente per indicare un'azione divina. Se, come dicono alcuni, fosse sinonimo di "separazione", perché non applicarlo anche all'attività umana? La risposta è semplice: nessun uomo può creare dal nulla. Lo dicono anche le leggi della fisica: in natura nulla si crea dal nulla. Solo Dio può farlo, tant'è che il verbo "barà", nella Bibbia, è usato sempre e solo in riferimento al divin Creatore.

CHI SCRISSE IL LIBRO DEL PROFETA ISAIA

Secondo la critica testuale, il Libro del Profeta Isaia non fu scritto interamente dal profeta omonimo. I capitoli che vanno dal 40 al 66 sarebbero stati scritti, alcuni secoli più tardi, da due diversi autori rimasti anonimi. La critica, per convenienza, chiama "Secondo Isaia" o anche "Deutero-Isaia" l'autore dei capitoli dal 40 al 55; gli ultimi del libro, cioè quelli che vanno dal 56 al 66, vengono, invece, attribuiti al cosiddetto "Terzo Isaia".

Successivamente, le tre parti sarebbero state unificate in una sola opera attribuita, poi, per intero, al Profeta Isaia. Ma sarà vero? Fino al XVII secolo d.c. praticamente nessuno mise in discussione la paternità degl'ultimi capitoli del suddetto libro. Dunque, per oltre 2000 anni nessuno ha dubitato che appartenesse tutto quanto a Isaia; poi vennero gli "illuministi" che, con diabolica ferocia, iniziarono a negare e ad attaccare tutto quanto riguardasse la religione cristiana (e in particolar modo il Cattolicesimo); non a caso, il motto del più famoso degl'illuministi fu "Écrasez l'infâme" (che vuol dire "schiacciate l'infame"). L'infame in questione, per la cronaca, era il Cristianesimo (e in particolar modo la Chiesa Cattolica). Al vaglio dell'Illuminismo, nulla di cristiano doveva essere salvato. Si iniziò, allora, a dubitare che i fatti raccontati nella Bibbia fossero realmente accaduti o che gli autori dei Sacri Testi fossero davvero quelli di cui, da sempre, ha parlato la tradizione.

Si iniziò a malignare che Mosè non avesse avuto alcun ruolo con la stesura del Pentateuco, che i primi 5 libri della Bibbia fossero un miscuglio di almeno tre diverse fonti, che l'ebraismo fu prima politeista, poi "monolatra" e solo successivamente, dopo l'esilio babilonese, monoteista. Si è congetturato che Abramo, Isacco, Giacobbe e i 12 figli di quest'ultimo non fossero mai esistiti; neppure Mosè sarebbe mai esistito mentre il vero autore della Torah sarebbe stato Esdra, il quale avrebbe inventato fatti e personaggi (quelli narrati nel Pentateuco) al solo scopo di dare un passato glorioso al popolo ebraico. Negl'ultimi 3 secoli si è malignato questo e molto altro ancora.

Che i nemici della Chiesa possano aver detto quello e quant'altro non mi stupisce affatto. Mi sorprende e mi rattrista, invece, che finanche molti cristiani (pur non accettando le derive più estreme) abbiano sposato lo stesso approccio "critico" (tipicamente post-illuminista) ai Sacri Testi anziché restare fedeli alla tradizione. Capita allora di leggere, tra le note a piè di pagina della Bibbia, che tale verso biblico sia di fonte "eloista" o che quell'altro sia di fonte "sacerdotale" o che le profezie di Daniele siano state scritte post-eventum o che i Vangeli risalgano a non prima del 70 d.c. oppure, come dicevo in precedenza, che gli ultimi capitoli del Profeta Isaia appartengano, in realtà, a due autori anonimi.

Chiediamoci adesso: come fa la critica testuale a dire che Isaia non scrisse i suddetti capitoli? I critici, basandosi sul metodo filologico, affermano che lo stile letterario di tali capitoli sarebbe diverso dai precedenti; diversi sarebbero anche il contesto storico e i temi trattati. Nonostante ciò, però, non si può dare loro ragione e a seguire spiegherò il perché.

I critici non hanno minimanete preso in considerazione il fatto che Isaia possa aver scritto il suo libro nell'arco di molto tempo, maturando, così, tra un capitolo e l'altro, una diversa sensibilità. Ad esempio, se non sapessimo che "Fermo e Lucia" e i "Promessi Sposi" fossero entrambi di Manzoni, saremmo in grado di attribuirli allo stesso autore? Forse no. Alcuni critici, infatti, usando proprio il metodo filologico, penserebbero che le due opere fossero state scritte in periodi diversi e, soprattutto, da due differenti autori. In primis perché non è consueto che uno scrittore riscriva daccapo una propria opera (fra l'altro già pubblicata), in secundis perché tra "Fermo e Lucia" e i "Promessi Sposi" esistono notevoli differenze e non solo nei contenuti. La differenza maggiore, probabilmente, consiste proprio nella diversità di stile e di linguaggio esistente tra le due opere. L'italiano di "Fermo e Lucia" è figlio del dialetto lombardo, con l'aggiunta di svariati "francesismi" (il francese era la lingua dotta di quel tempo) e finanche di qualche parola "spagnoleggiante" come nel dialogo tra Don Rodrigo e il Conte del Sagrato (così è chiamato "l'Innominato" in "Fermo e Lucia"); la lingua dei "Promessi Sposi", invece, è figlia del volgare fiorentino (dal quale ha avuto origine l'italiano dei giorni nostri). Alle differenze stilistiche e linguistiche, vanno poi sommate quelle relative ai contenuti. Nel passaggio da "Fermo e Lucia" ai "Promessi Sposi", Fermo Spolino diventò Renzo Tramaglino, Lucia Zarella diventò Lucia Mondella, il Conte del Sagrato diventò l'Innominato e Marianna De Leyva diventò la Monaca di Monza. Da un'opera all'altra, però, non cambiarono solo i nomi e le vicende ma anche il carattere dei personaggi; di taluni in meglio e di altri in peggio. Pensiamo, ad esempio, al personaggio di Don Rodrigo. Come ha detto qualcuno, nei "Promessi Sposi" sembrerebbe quasi che Manzoni abbia voluto fare di lui l'incarnazione del male di tutto un secolo. In "Fermo e Lucia", infatti, egli è mosso, verso di lei, da una vera e propria passione, fino ad esserne tremendamente geloso. Tant'è che egli non muore di peste (pur avendo già contratto tale malattia) ma per una caduta da cavallo a seguito dell'ennessimo attacco di gelosia. La sua persecuzione, pertanto, sembrerebbe nascere da un sentimento sincero (seppur sbagliato poiché violento, possessivo e non ricambiato). Nei "Promessi Sposi", invece, egli incarna la cattiveria, la prepotenza, la futilità e la nullità dell'oppressore staniero. Gli ostacoli che egli frappone alle nozze di Renzo e Lucia, infatti, nascono qui non da un sentimento (seppur sbagliato) ma da una futile scommessa stipulata con il cugino Attilio, superficiale e prepotente come lui. 

Tornando al Libro del Profeta Isaia, esiste, in realtà, una ragione più concreta ed importante (rispetto alla diversità di stile) per cui i critici parlano di un "secondo" e di un "terzo" Isaia. I capitoli che vanno dal 40 al 66 (e in particolar modo quelli dal 40 al 55) contengono la profezia della deportazione a Babilonia del popolo ebraico e, soprattutto, quella del loro ritorno in patria per mezzo dell'imperatore persiano Ciro (che Isaia cita, addirittura, per nome). I razionalisti, non credendo che la Bibbia sia stata ispirata da Dio, affermano che tali profezie, essendosi realmente avverate, non possano essere state predette e scritte con oltre un secolo di anticipo; dunque, a sentir loro, sarebbero state scritte post-eventum (cioè a fatti già accaduti). Visto che Isaia, al tempo della deportazione e del rimpatrio per mezzo dell'imperatore Ciro, era già morto da un pezzo, i critici ritengono che quei capitoli (quelli dal 40 in poi) siano stati scritti da qualcun altro. 

Non esiste, pertanto, alcuna vera prova che quei capitoli non siano stati scritti da Isaia; tutto nasce dal pregiudizio laico, anzi ateo, secondo il quale la Bibbia non sia stata ispirata da Dio. Per lo stesso pregiudizio, la critica testuale pensa che almeno una parte del Libro del Profeta Daniele sia stata scritta non prima del II secolo a.c. (soprattutto la parte relativa ad Antioco Epifane). Le profezie di Daniele stupirono, vista la loro precisione, sin dall'antichità. Di riflesso, oggi si preferisce pensare che almeno parte di quel libro risalga al II secolo a.c. e non al periodo in cui visse davvero l'omonimo profeta (VI secolo a.c.). 

DATAZIONE DEL VANGELI SINOTTICI

Analogo discorso per quanto concerne la datazione dei vangeli sinottici. Vi siete mai chiesti come mai i critici dicano che non furono scritti prima del 70 d.c.? Perché tirano in ballo proprio il 70 d.c. e non il 60 o il 50 o l'80 dello stesso secolo? Ve lo siete mai chiesto? La risposta è tanto semplice quanto, è il caso di dirlo, deprimente. Tutti e 3 i sinottici contengono la profezia della distruzione del Tempio di Gerusalemme, distrutto dai romani nel 70 d.c. al culmine della cosiddetta "Guerra Giudaica". I "critici razionalisti" però, non accettando che la Bibbia possa essere stata ispirata da Dio (poiché molti di loro neppure credono in Dio), dicono che i sinottici, almeno nella loro stesura definitiva (cioè come li conosciamo noi) debbano "per forza" essere stati scritti dopo il 70 o, tutt'al più, pochissimo tempo prima (cioè quando la guerra era già iniziata e qualcuno, volendo, potrebbe averne intuite le conseguenze più drammatiche).

Dunque, anche i Vangeli sono vittime dello stesso pregiudizio: Dio, secondo alcuni, non esisterebbe, oppure, anche esistendo, non avrebbe ispirato gli autori biblici, i quali, di conseguenza, non erano in grado di prevedere il futuro. Pertanto, ogni qual volta una profezia biblica parla di fatti storici realmente accaduti, i critici affermano che sia stata scritta post-eventum (cioè a fatti già accaduti).

Ecco che, con la scusa di analizzare un testo in modo "critico e razionale", altro non si fa che negarne le verità "scomode".

Tutto ciò ha, addirittura, un risvolto tragicomico; tale approccio (quello dei cosiddetti "critici razionalisti") è considerato, infatti, "scientifico" nonostante di scientifico, in realtà, abbia ben poco. A me pare, semplicemente, che tanti pregiudizi siano stati elevati al rango di certezza (eppur la chiamano scienza...)

(oppure "hanno trafitto")