DIO TENTA GLI UOMINI?

Il Sacrificio di Isacco (particolare) - Caravaggio

1) Nessuno, quand’è tentato, dica: «Sono tentato da Dio»; perché Dio non può essere tentato dal male, ed egli stesso non tenta nessuno; invece ognuno è tentato dalla propria concupiscenza che lo attrae e lo seduce. (Giacomo 1,13-14)

2) Figlio, se ti presenti per servire il Signore, preparati alla tentazione. (Siracide 2,1)

3) Ringraziamo il Signore Dio nostro che ci mette alla prova, come ha già fatto con i nostri padri. Ricordatevi quanto ha fatto con Abramo, quali prove ha fatto passare ad Isacco e quanto è avvenuto a Giacobbe in Mesopotamia (Giuditta 8,25-26)

4) Mosè disse al popolo: “Non abbiate timore: Dio è venuto per mettervi alla prova e perché il suo timore vi sia sempre presente e non pecchiate”. (Esodo 20,20)

5) Dio l’abbandonò per metterlo alla prova e conoscerne completamente il cuore. (2-Cronache 32,31)

6) Se intendi farti un amico, mettilo alla prova; e non fidarti subito di lui. (Siracide 6,7)

7) Accetta quanto ti capita, sii paziente nelle vicende dolorose, perché con il fuoco si prova l’oro, e gli uomini ben accetti nel crogiuolo del dolore. (Siracide 2,.4-5)

8) Per una breve pena riceveranno grandi benefici, perché Dio li ha provati e li ha trovati degni di sé: (Sapienza 3,5)

9) Disse: “Se tu ascolterai la voce del Signore tuo Dio e farai ciò che è retto ai suoi occhi, se tu presterai orecchio ai suoi ordini e osserverai tutte le sue leggi, io non t’infliggerò nessuna delle infermità che ho inflitte agli Egiziani, perché io sono il Signore, colui che ti guarisce!”. (Esodo 15,26)

10) Dio mise alla prova Abramo quando gli chiese di immolare Isacco

11) Dio mise alla prova Giobbe facendolo cadere in sventura

Un non credente ha sollevato anche questa obiezione: "E' notevole sottolineare che i biblisti hanno modificato la frase  «non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male» (Matteo 6,13) usata fin dalla PRIMA Bibbia, ovvero quella di San Girolamo del Concilio di Trento, fino a quella CEI del 1974 in «non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male» nella versione finale attuale, CEI 2008. Mica scemi."

Non c’è alcuna incongruenza nei passi sopra riportati. San Giacomo, dunque, ha ragione nel dire che Dio non tenta nessuno. L'errore di alcuni consiste nel pensare che “tentare” e “mettere alla prova” siano esattamente la stessa cosa, ma non è propriamente così. Il termine italiano “tentazione” deriva dal latino temptationis che vuol dire essere stimolati a compiere qualcosa che non si dovrebbe, ergo a fare il male. Nel vocabolario latino i sinonimi di tale termine sono: adescamento, allettamento, lusinga e seduzione. Ecco che, nel gergo biblico, il termine tentazione è accomunato al Diavolo poiché è lui, non Dio, a indurre al male. E’ LUI CHE ADESCA, E’ LUI CHE ALLETTA CON FALSE LUSIGHE, E’ LUI CHE SEDUCE PER INDURRE AL PECCATO. Dio può, invece, mettere alla prova. Là dove con ciò si intende testare il comportamento (e più specificamente la fede) di qualcuno.
 
2) Quel brano del Siracide non dice affatto che Dio tenti l’uomo. Dice, invece, che chi intende servire il Signore metta già in conto che sarà vessato dal demonio. Il Diavolo, infatti, tenta i giusti molto più di quanto faccia coi reprobi. Coloro che vivono immersi nel peccato non necessitano di essere tentati poiché sono già loro ad auto-tentarsi. Non c’è bisogno che il Diavolo li svii, poiché fanno già tutto da soli. Leggendo la biografia di Padre Pio, sappiamo che Satana lo tormentò tutta la vita (dicasi lo stesso per tanti altri santi). 
 
3) 4) 5) 6) 7) 8) 9) Nessuno dei brani in questione dice sia Dio a tentare l’uomo, semmai che lo metta alla prova. Per meglio capire la differenza tra "prova" e "tentazione", vi segnalo il bel commento al "Padre Nostro" di San Tommaso d'Aquino:

https://www.amicidomenicani.it/vedi_rubriche.php?sezione=domenicani&id=41

Nell'eventualità che non abbiate tempo per leggerlo tutto, vi prego leggere almeno la parte relativa al "non ci indurre in tentazione". San Tommaso spiega che la "tentazione" vada intesa in due modi: operare nel bene ed evitare il male.  Si dice che Dio metta alla prova l'uomo nel caso in cui esso sia spinto ad operare il bene. Accade, allora, che qualche volta Dio saggi l’uomo in questo modo, non perché egli non conosca la sua virtù, ma per far sì che tutti la conoscano e sia a tutti di buon esempio (come nel caso di Abramo e di Giobbe).  Se egli resiste e non acconsente alla tentazione, la sua virtù è grande. Se invece soccombe, la sua virtù è nulla. Ma in questa maniera nessuno è tentato da Dio, perché egli, come dice Giacomo, “non tenta nessuno al male” (Gc 1,13). Chi, allora, tenta gli uomini al male? Dice San Tommaso: l'uomo è tentato dalla carne, dal diavolo e dal mondo.

Rimane adesso da capire perché il testo usi il verbo "indurre". Risposta di San Tommaso:
"Si dice che Dio induce al male nel senso che lo permette, in quanto, cioè, a causa dei suoi molti peccati precedenti, sottrae all’uomo la sua grazia, tolta la quale, egli scivola nel peccato. Per questo noi diciamo col salmista “Non ABBANDONARMI quando declinano le mie forze” (Sal 70,9). Dio però sostiene l’uomo, perché non cada in tentazione, mediante il fervore della carità che, per quanto sia poca, è sufficiente a preservarci da qualsiasi peccato. Infatti che “le grandi acque non possono spegnere l’amore” (Ct 8,7)".

Dio, pertanto, non "induce" ma "permette". Dunque, in virtù anche del Salmo 70, il Signore ci dice di implorarlo a non abbandonarci nell'ora della tentazione.

10) Dio mise alla prova Abramo non perché volesse la morte di Isacco, ma per testarne la fede, tant’è che al momento del dunque fermò la mano di Abramo dicendo: «Abramo, Abramo!… Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio» (Genesi 22, 1-18). Qui si parla di “unico figlio” poiché l’altro, Ismaele, era illegittimo (e fra l’altro, lui e la madre Agar, non vivevano più con Abramo). Se fosse stato il Diavolo a indurre Abramo a quel gesto, state certi che non l’avrebbe fermato. Ci si potrebbe chiedere che bisogno abbia Dio di verificare qualcosa essendo onnisciente. Ebbene, Dio già sapeva come Abramo si sarebbe comportato. Anche l’espressione “testare la fede”, applicata a Dio, di per sé, è un antropomorfismo. Dio volle che quel fatto accadesse perché sia i diretti interessati, sia i posteri, ne traessero un insegnamento. Abramo capì ulteriormente che con Dio non si scherza e che bisogna restargli ubbidienti; ancor più, nell’occasione, lo capì suo figlio Isacco. Grande, poi, è stato ed è l’insegnamento che ne hanno tratto e ne traggono tuttora i posteri. Non a caso Abramo fu, ed è considerato, simbolo della fede tanto dagli ebrei, quanto dai cristiani, e dai mussulmani. La Lettera agli Ebrei lo presenta così: «Per fede, Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava. Per fede, egli soggiornò nella terra promessa come in una regione straniera, abitando sotto le tende, come anche Isacco e Giacobbe, coeredi della medesima promessa. Egli aspettava infatti la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso» (Ebrei11,8-10). 

Fra l’altro, quell’episodio diede l’occasione a Dio di dire: «Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio, 17 io ti benedirò con ogni benedizione e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare; la tua discendenza si impadronirà delle città dei nemici. 18 Saranno benedette per la tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce»   (Genesi 22, 1-18).
 
11) Tra i libri più interessanti della Sacra Scrittura c’è quello di Giobbe che tratta il perché dell’esistenza del male e della sofferenza umana. L’intero libro è da considerarsi come una lunga parabola; non dobbiamo, dunque, pensare che i personaggi in esso narrati siano esistiti per davvero. Giobbe, dopo aver rispettato fedelmente la Legge Divina, è colpito da una sciagura dopo l’altra. Riporto, per brevità, il riassunto del libro che ne fa Wikipedia:
 
Il libro inizia con un racconto in prosa. Giobbe, servo di Dio, viveva ricco e felice. Dio permise a Satana di tentarlo per vedere se fosse rimasto fedele anche nella cattiva sorte. Colpito prima nei beni e poi nei figli, Giobbe accetta che Dio si riprenda quel che gli aveva dato. Ammalatosi di una malattia ripugnante e dolorosa, Giobbe rimane sottomesso e respinge la moglie che gli consiglia di maledire Dio. Allora tre suoi amici, Elifaz, Bildad e Zofar vengono a compiangerlo (capitoli 1 e 2). Giobbe e gli amici confrontano le loro concezioni riguardo alla giustizia divina. Elifaz parla con la moderazione che l'età gli ispira; Zofar segue gli impulsi della sua giovane età, mentre Bildad è un sentenzioso che si tiene su una linea media. Tutti e tre, però, difendono la tesi tradizionale secondo la quale se Giobbe soffre significa che ha peccato. Ma alle loro considerazioni teoriche Giobbe contrappone la propria esperienza dolorosa e le ingiustizie di cui il mondo è pieno; nella sua condizione di turbamento morale, il grido di rivolta si alterna a espressioni di sottomissione. A questo punto interviene un nuovo personaggio, Elhu, che dà torto sia a Giobbe che agli amici, tentando di giustificare la condotta di Dio. Viene interrotto da Dio in persona che di mezzo al turbine, cioè nello scenario delle antiche teofanie, risponde a Giobbe. Il libro si conclude con un epilogo in prosa: Dio rimprovera i tre interlocutori di Giobbe e rende a quest'ultimo, moltiplicandoglieli enormemente, i beni che prima dell'accaduto possedeva. Gli dona nuovi figli e figlie, queste in particolare di bellissimo aspetto.
 
Così come i personaggi del libro non vanno intesi come realmente esistiti, dicasi lo stesso dell’intera vicenda. Il Libro di Giobbe, inserito non a caso tra i “sapienziali”, serve ad insegnare varie cose. Innanzitutto che i mali non provengono da Dio. Sbagli, infatti, a dire che Dio tenti Giobbe; se avessi letto il libro sapresti che fu Satana a tentarlo e non Dio. Il Diavolo sosteneva che Giobbe fosse un uomo retto solo perché tutto gli andasse bene. Dio permise, allora, che Giobbe fosse tentato da Satana, che fosse spogliato di tutti i beni, ad eccezione della vita, e così accadde. Dopo aver perso tutto, Giobbe disse: “Nudo uscii dal seno di mia madre e nudo vi ritornerò”, ripetendo, ad ogni triste evento scatenatosi su di lui, quest’altra frase: “Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore!”. Gli ebrei dell’epoca pensavano che come il bene fosse il premio per i giusti, il male fosse esclusivamente frutto di colpe da espiare. Di questo avviso, erano, ad esempio, i tre amici di Giobbe. Tale mentalità era ancora presente, almeno in parte, al tempo di Cristo, tant’è che nel Vangelo leggiamo questa domanda posta a Gesù circa un cieco nato: “Passando vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?» Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio»” (Gv 9,1-3). Gli ebrei, a quel tempo, non avevano una vera e propria fede nell’aldilà. Non che pensassero che finisse tutto con la morte ma la vita ultraterrena, per loro, era non più che un’ombra di quella terrena. Dunque, per loro, la giustizia divina doveva compiersi già in questa vita. Ai discorsi tra Giobbe ed i 3 amici si unisce, ad un certo punto, il discorso di un personaggio nuovo e misterioso, tale Eliu, apparso all’improvviso per poi sparire altrettanto improvvisamente. Non dice niente di originale, se non una cosa, cioè che la sofferenza ha come significato fondamentale quello di pedagogia da parte di Dio: attraverso la sofferenza Dio educa l’uomo, questo gli amici di Giobbe non l’avevano detto. Al cap. 36, 15, ad esempio, Eliu fa un’affermazione sorprendente: “Egli libera il povero con l’afflizione, gli apre l’udito con la sventura”.“Libera il povero con l’afflizione” non significa che libera il povero mentre è afflitto, ma che si serve dell’afflizione per condurre il povero a una liberazione, ad un compimento, ad una redenzione interiore. Si serve della sventura per aprire l’orecchio dell’uomo, perché “l’uomo nella prosperità non comprende”, dice il Salmo, “è come gli animali che periscono.” Al 38° capitolo arriva, finalmente, la “risposta” di Dio alle domande poste da Giobbe circa la sofferenza umana, in particolar modo quella dei giusti.
 
«[1]Il Signore rispose a Giobbe di mezzo al turbine: [2]Chi è costui che oscura il consiglio con parole insipienti? [3]Cingiti i fianchi come un prode, io t’interrogherò e tu mi istruirai. [4]Dov’eri tu quand’io ponevo le fondamenta della terra? Dillo, se hai tanta intelligenza! [5]Chi ha fissato le sue dimensioni, se lo sai, o chi ha teso su di essa la misura? [6]Dove sono fissate le sue basi o chi ha posto la sua pietra angolare, [7]mentre gioivano in coro le stelle del mattino e plaudivano tutti i figli di Dio? [8]Chi ha chiuso tra due porte il mare, quando erompeva uscendo dal seno materno, [9]quando lo circondavo di nubi per veste e per fasce di caligine folta? [10]Poi gli ho fissato un limite e gli ho messo chiavistello e porte [11]e ho detto: «Fin qui giungerai e non oltre e qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde».
 
Riporto, in merito a ciò, le interessantissime considerazioni di Mons. Luciano Monari:

La cosa che sorprende nei discorsi di Dio è che Dio non risponde affatto a quello che Giobbe gli ha chiesto. Abbiamo seguito tutti i discorsi tra Giobbe e gli amici, fino a quell’appello a Dio: “Ecco qui la mia firma! L’Onnipotente mi risponda” E a che cosa deve rispondere l’Onnipotente? Alla sofferenza di Giobbe: deve spiegare perché Giobbe sta soffrendo; come si può difendere una giustizia di Dio in un mondo che va in questo modo concreto, con un innocente che soffre? Deve rispondere a queste cose, ma Dio non risponde affatto, parla di tutt’altra cosa, tanto che alcuni autori hanno pensato che questi discorsi siano stati aggiunti da altri, non dall’autore dei dialoghi tra Giobbe e gli amici. Ma se si tolgono questi discorsi il libro non ha più senso.

In realtà la risposta è proprio qui, nel fatto che Dio non risponde a Giobbe: “Chi è costui che oscura il consiglio con parole insipienti?” Il “consiglio” vuol dire il piano, il progetto con cui Dio interviene nella storia degli uomini e dà a questa storia una direzione: le cose che avvengono nella storia, gli interventi di Dio, costituiscono quello che noi chiamiamo “una storia di salvezza”. Questo vale per l’umanità, questo vale in particolare per la storia di Israele, questo deve valere anche per la vita del singolo: Dio ha in mano la vita del singolo, così come ha in mano la vita dell’umanità e la guida secondo un progetto sapiente, il progetto di Dio-Giobbe contesta proprio questo!

“Chi è costui che oscura il consiglio con parole insipienti? Cingiti i fianchi come un prode, io ti interrogherò e tu mi risponderai!” Quindi con un atteggiamento in parte ironico, ma di un’ironia benevola, il Signore si pone davanti a Giobbe e gli chiede di manifestare la sua sapienza, la sua conoscenza delle cose: “Io ti interrogherò e tu mi istruirai!” Naturalmente in questo c’è un tono di ironia, ma c’è anche uno straordinario rispetto per la persona di Giobbe, perché Giobbe sta davanti a Dio come un “tu”, come un interlocutore. Giobbe viene preso sul serio, Dio non lo schiaccia! Era quello che temeva all’inizio, aveva chiesto di incontrare Dio, ma aveva detto. “Solo non mi terrorizzare con la tua presenza. Voglio poter parlare ed esprimermi apertamente”. Ora, quando Dio interviene, non terrorizza affatto Giobbe, non lo schiaccia con la sua presenza; al contrario, lo pone davanti a sé come un interlocutore, con un pizzico di ironia pedagogica, che deve aiutare Giobbe a non prendersi troppo sul serio, a saper misurare se stesso, la sua identità, la sua conoscenza delle cose. Quindi gli fa, prima di tutto, quello che noi chiameremmo “un esame di sapienza”. Nell’antichità erano abbastanza frequenti le gare di sapienza, in cui due squadre ponevano l’una all’altra degli indovinelli, per vedere chi era maggiormente capace di cogliere ed esprimere i misteri nascosti. E’ una specie di gara in cui Dio pone a Giobbe delle domande, cominciando naturalmente da quelle che si collegano alla creazione: “Dov’eri tu quando ponevo il fondamento della terra? Dillo se hai tanta intelligenza!” Quando il Signore ha fatto il mondo si è fatta una festa grande: si inaugurava un edificio nuovo, veniva messa la pietra di fondazione dell’universo e allora insieme con il Signore le stelle del mattino e gli Angeli hanno fatto festa. Ma Giobbe non c’era, Giobbe era assente.
http://www.cistercensi.info/monari/1995/m1995020104.htm

Dio, dunque, rivendica il sacrosanto diritto alla propria trascendenza e a fare ciò che fa. “Chi è costui che oscura il consiglio con parole insipienti”. Tale frase la si potrebbe riformulare così: “Chi è costui che mette in discussione i mie piani con parole da ignorante?”. Nel Libro del profeta Isaia leggiamo: “7 L'empio abbandoni la sua via e l'uomo iniquo i suoi pensieri; ritorni al Signore che avrà misericordia di lui e al nostro Dio che largamente perdona. 8 Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie - oracolo del Signore. 9 Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri (Is 55, 7-9)”. Dio non pensa e ragiona alla maniera umana; è Lui stesso a ribadirlo. Torna allora il concetto del bambino che, al momento del vaccino, non comprendendo l’importanza e la necessità della cosa, piange e si lamenta. 

La Bibbia di Gerusalemme presenta in sintesi il messaggio del libro di Giobbe con queste parole: “Giobbe si solleva con tutta la sua innocenza... Per lui è uno scandalo che tale retribuzione gli venga rifiutata nel presente, e cerca invano il senso della sua prova. Lotta disperatamente per ritrovare Dio che si nasconde e che egli continua a credere buono. E quando Dio interviene, interviene per rivelare la trascendenza del suo essere e dei suoi disegni e per ridurre Giobbe al silenzio. È questo il messaggio religioso del libro: l'uomo deve persistere nella fede anche quando il suo spirito non ne è appagato. A questo stadio della rivelazione l'autore del libro di Giobbe non poteva andare oltre. Per illuminare il mistero della sofferenza innocente, bisognava attendere di avere la retribuzione dell'aldilà e di conoscere il valore della sofferenza degli uomini unita a quella di Cristo. Alla domanda angosciosa di Giobbe risponderanno due testi di san Paolo: «Le sofferenze del tempo presente non sono paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi» (Rm 8,18) e: «Do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa» (Col 1,24)”.

Un giorno il Signore disse a Santa Caterina: “In questa vita io permetto ai demoni di tentare e molestare le mie creature non perché siano vinte, ma perché vincano e ricevano da me la gloria della vittoria, provando la loro virtù. D’altra parte nessuno deve temere, qualunque siano le battaglie e le tentazioni che gli vengono dal demonio, perché io ho fatto forti gli uomini e ho dato loro la fortezza della volontà fortificandola nel sangue del mio Figliuolo. Questa volontà né demonio né creatura alcuna ve la può mutare perché è vostra, data a voi da me insieme al libero arbitrio. Voi dunque col libero arbitrio la potete tenere saldamente in vostro possesso, o lasciare come vi piace. Se la ponete nelle mani del demonio essa è l’arma e il coltello con cui egli vi percuote ed uccide; ma se l’uomo non dà questo coltello della volontà nelle mani del demonio, cioè se non acconsente alle sue tentazioni e molestie, giammai sarà ferito dalla colpa del peccato, qualunque tentazione subisca. Ne rimarrà anzi fortificato se aprirà l’occhio dell’intelletto a contemplare la mia carità la quale permette che siate tentati solo per farvi giungere alla virtù e provarla in voi stessi. I demoni dunque sono miei ministri nel tormentare i dannati nell’inferno e nell’esercitare e provare la virtù dell’uomo in questa vita. L’intenzione del demonio non è di provare e temprare la vostra virtù, perché in lui non vi è la carità, ma è di privarvi della virtù: ma ciò non può fare se voi non volete. Grande è perciò la stoltezza dell’uomo che si fa debole laddove io l’ho fatto forte e da sé medesimo si mette nelle mani del demonio” (Dialogo 43).
 
Per quanto concerne il “non indurre in tentazione” cambiato in “non abbandonarci alla tentazione”, si è cercato semplicemente di armonizzare il testo al suo significato originario. 

Ciò lo si capisce anche dal termine πειρασμόν (peirasmon) che in greco antico significa "prova" (nel senso di "testare" e dunque "mettere alla prova").  Tale parola, nella stessa forma in cui è presente in Matteo, la si ritrova solo altre 10 volte in tutto il Nuovo Testamento. Il greco "koinè", quello dei Vangeli, non era però lo stesso del greco "classico" (cioè quello dei tempi di Omero). Sin dai primi secoli, pertanto, "peirasmon" fu inteso come "tentazione". Non a caso San Girolamo (che tradusse la Bibbia "ad sensum" anziché "ad litteram") tradusse "temptationis" (tentazione). Ecco perché, come dicevo in precedenza, nel gergo biblico, il termine "tentazione" è accomunato al Diavolo poiché è lui, non Dio, a indurre al male. E’ LUI CHE ADESCA, E’ LUI CHE ALLETTA CON FALSE LUSIGHE, E’ LUI CHE SEDUCE PER INDURRE AL PECCATO. Dio può, invece, mettere alla prova. Là dove con ciò si intende testare il comportamento (e più specificamente la fede) di qualcuno (come del resto ebbe a spiegare anche San Tommaso d'Aquino). 

A questo bisogna aggiungere che, con tutta probabilità, il Vangelo di Matteo, in origine, non fu scritto in greco ma in aramaico. Papia, vesco di Ierapoli, nella prima metà del II secolo,  affermò che Matteo raccolse i detti di Gesù scrivendoli nella lingua degli Ebrei (che già al tempo di Gesù non era più l'ebraico ma l'aramaico): «Matteo ordinò in lingua ebraica (o: aramaica) i detti, e ciascuno lo tradusse (o: interpretò) come meglio poté». Così dicendo, Papia lasciò intenedere che la versione in greco non fosse esattamente la stessa di quella in aramaico.

Ebbene, anche se non possediamo l'originale in aramaico, abbiamo la Bibbia in "siriaco" che, come l'ebraico e l'aramaico, è una lingua semitica. Questo testo ci può aiutare a capire meglio quanto spiegato tra le note della Bibbia di Gerusalemme:  “Il senso permissivo del verbo aramaico usato da Gesù, “lascia entrare” e non “fare entrare” non è reso dal greco e dalla volgata”.

Anche il Saluto Angelico, se è per questo, nella più recente traduzione della CEI, è stato cambiato da “Ave Maria” in “Rallegrati Maria”. Nessuno, su questo, può dire si sia trattato di una “furbata”; eppure lo si è fatto. Il Vangelo secondo Luca, infatti, usa il termine “kaire” che significa “rallegrati” o “gioisci”. Col passare del tempo, nel greco koinè, quel termine diventò anche sinonimo di “ave” o “salve” (oggi diremmo ciao o buongiorno). Come dicevo prima, anche le parole nascono, si evolvono e talvolta muoiono. Tantissimi termini, usati ancor oggi, un tempo avevano un significato diverso. Ti faccio un esempio: “Collaudare” oggi significa testare il corretto funzionamento di un qualcosa, ma fino a meno di due secoli aveva tutt’altro significato. Era sinonimo di complimento, lode, approvazione: "Con laudo". Anche il termine ateo, in principio, non indicava i non credenti in Dio. Dal greco “A-Theos”, significava, semplicemente, “senza Dio”.